L'Islanda sud-occidentale: Borgarnes, Reykholt e il Langjökull
Giovedì 27 giugno abbandoniamo Reykjavìk per avventurarci nella prima tappa del nostro giro dell'Islanda. Il tempo, indovinate un po', è terribile: piove e fa freddo. Carichiamo i bagagli, salutiamo il Fosshotel Baron dopo una lauta colazione e partiamo verso nord, prendendo la route 1 che segue la costa. Stanotte dormiremo a Reykholt nel Reykholtsdalur, la valle attraversata dal fiume Reykjadalsá, che dista circa 110 km dalla capitale; lungo la strada abbiamo molte cose da vedere - inclusa una gita sul Langjökull (il ghiacciaio lungo, perché ha una forma allungata). Ma andiamo con ordine.
Considerata la visibilità piuttosto ridotta, anziché costeggiare tutto il fiordo di Hvalfjörður (il nostro primo fiordo!!!), decidiamo di percorrere il tunnel sotterraneo che lo attraversa: la galleria è lunga sei chilometri circa e scende a una profondità di circa 160 metri sotto il mare. Una figata, se la carreggiata non fosse così stretta. La gente del posto dice che in Islanda il tempo cambia in uno schiocco di dita; sarà pure così durante il giorno, ma la mattina stai pur certo che piove. La nostra prima tappa è il set di una delle serie Netflix a mio avviso più belle di sempre: Sense8.
Con una piccola deviazione raggiungiamo la chiesetta bianca sulla riva settentrionale del Hvalfjörður, con annesso cimitero, sul cui ridente praticello verde Capheus consola Riley che piange sulla tomba della mamma. Purtroppo il cancello è chiuso e non possiamo entrare. Ci fanno compagnia cinque pecorelle; dopo un po' arrivano in auto una ragazza inglese e sua madre, anche loro fan di Sense8. All'inizio si vergognano un po', poi ci salutano e ci chiedono se possiamo scattargli una foto ricordo. Per il resto non c’è anima viva. Soddisfatti (mio marito e mia figlia un po' meno, perché loro la serie non l'hanno vista) rimontiamo in auto per dirigerci verso la metà successiva, il villaggio di Borgarnes.
Avete presente la storia che in Islanda il tempo può cambiare in uno snap? Tutto vero. La foto qui sopra ve lo dimostra: noi venivamo da lì e ora, dirigendoci verso la ridente cittadina di Borgarnes, sta uscendo addirittura il sole (ecco la prima volta che lo rivediamo da quando siamo arrivati: siamo commossi). Che dire di Borgarnes? Una tipica cittadina costiera islandese piena di cuori di legno attaccati lungo la strada. Siccome dobbiamo andare in bagno decidiamo di infilarci nel Landnàmssetur Islands (the Settlement Centre, il museo dell'insediamento), che la nostra Lonely Planet ci suggerisce.
Non aspettatevi il tradizionale museo con reperti antichi e una pretesa di autenticità storica. In compenso, troverete una bella dose di creatività e verrete iniziati alla cultura e alla complessità più veraci delle tradizioni islandesi. La mostra si articola in due parti: la prima descrive come sono sbarcati i primi vichinghi e dove si sono insediati con le loro fattorie (alcune, debitamente ammodernate, ancora mantengono lo stesso nome); la seconda vi racconta la saga di Egil Skallagrimson, uno skald (poeta vichingo) e anti-eroe del luogo. La sua storia merita di essere brevemente raccontata.
C'era una volta Skalla-Grímr Kveldúlfsson, un vichingo norvegese che con la moglie si stabilì in Islanda, precisamente qui a Borg(arnes), perché aveva litigato furiosamente con il re di Norvegia. Skalla-Grímr ebbe due figli: il primogenito, Þórólfr (Thòrolfr), era bello alto e biondo come la madre; il secondogenito Egill, invece, era tutto nero, con il testone e un po' matto come il padre. A tre anni Egill scrisse la sua prima poesia. A sette anni fu imbrogliato in un gioco da alcuni ragazzi locali; arrabbiato, tornò a casa, si procurò un'ascia e tagliò a metà la testa di uno di loro. Un tipetto tranquillo, insomma. Più grande, uccise uno degli uomini fidati del re di Norvegia che, da allora, giurò eterno odio ai fratelli Skallagrimson. La regina Grunilde gli lanciò una maledizione e tentò di avvelenare Egill e Þórólfr, che però riuscirono a scampare il pericolo. Lasciata la Norvegia, Egill trascinò il fratello in guerra causandone la morte. Tornato a casa, ne sposò la bella vedova Ásgerðr Björnsdóttir (che non era proprio felicissima della cosa) ed ebbe da lei cinque figli, quattro maschi e una femmina. Prima di morire Egill nascose il suo tesoro di argento nei pressi di Mosfellsbær, che nessuno ha ancora rinvenuto.
Arricchiti da questa avvincente esperienza ripartiamo da Borgarnes per dirigerci verso Hùsafell dove, alle tre del pomeriggio, ci aspettano per la gita organizzata sul Langjökull.
Sugli Islandesi abbiamo appreso che:
i) non usano i cognomi ma i patronimici; significa che hanno un nome proprio seguito dal nome di battesimo del padre cui si attacca il suffisso "son" se sono maschi e "dòttir" se sono femmine (ad esempio, Egill Skallagrimson e Riley Gunnarsdóttir di Sense8). L'elenco telefonico riporta gli Islandesi per il nome di battesimo; di recente è stata emanata una legge per tutelare questa tradizione;
ii) non hanno molta immaginazione con i nomi dei luoghi, che sono per lo più descrittivi (Langjökull, Vìk);
iii) sono tendenzialmente degli psicopatici.
Intanto è uscito uno sprazzo di sole mentre percorriamo prima la route 50 e poi la 518 verso Husafell.
All'ora di pranzo ci fermiamo dopo Reykholt a visitare le due cascate Hraunfossar (cascate di lava) e Barnafoss (la cascata dei bambini). Lasciamo l'auto nel parcheggio (gratuito) e ci fermiamo al caffè per far mangiare mia figlia che, tanto per cambiare, ha fame. Mio marito ed io sgranocchiamo le barrette mentre lei addenta un toast gigantesco e fumante (dopo lo spicy chicken di ieri, ha preferito andare sul classico).
Le due cascate sono circondate da una vegetazione meravigliosa e possono essere ammirate da diverse angolazioni, percorrendo i numerosi sentieri che si diramano su entrambe le sponde del fiume Hvítá (lo stesso che più a valle forma la magnificente cascata Gullfoss, vedi Day 3).
La cascata di Hraunfossar è spettacolare perché i suoi getti e zampilli gentili, non molto alti ma bellissimi, si aprono a ventaglio su uno dente di lava ampio circa 900 metri. La cosa più stupefacente è che l'acqua sgorga dal nulla: dalla foto si vede che non c'è nessun fiume a monte, l’acqua scorre sotterranea e riaffiora solo dalla pendenza dove il terreno lavico si interrompe, formando uno zoccolo digradante. Il colore delle cascate varia durante le stagioni dell'anno. Noi le abbiamo visitate eccezionalmente con il sole, e l'acqua era di un bianco latteo.
Poco più in alto, proseguendo a piedi, si può ammirare la seconda cascata: Barnafoss. Qui il fiume si vede eccome, scrosciante e impetuoso e c’è anche un bellissimo arco di roccia scavato dalle acque. Barnafoss significa cascata dei bambini e prende il suo nome da una triste leggenda. In passato in questi luoghi viveva una vedova con due figli; a Natale la donna si recò alla messa lasciando i pargoli a casa, ma quando tornò scoprì che erano scomparsi. Seguendone le tracce scoprì così che le orme si interrompevano su un grande arco di pietra che passava sopra la cascata: i bambini erano probabilmente caduti nel fiume gelido e impetuoso, trovandovi la morte. La donna volle che il grande arco naturale fosse distrutto per evitare il possibile ripetersi della tragedia. Nel tempo però l'acqua ha formato un altro arco naturale, sul quale è severamente vietato avventurarsi (per passare da una sponda all’altra è stato costruito un bel ponticello pedonale, molto più sicuro).
Riprendiamo l'auto e ci dirigiamo all'Hùsafell Centre, un campeggio nel verde con centro attrezzato, caffè e parcheggio da cui partono numerose escursioni (a piedi o organizzate) per i panoramici dintorni, il vicino Langjökull e la cava di lava Víðgelmir (The Cave). Noi abbiamo scelto di visitare il ghiacciaio, prenotando da Roma perché i posti sono limitati (Into the glacier).
Puntuali, alle tre ci fanno salire su un pullman con ruote enormi e ci portano su per la montagna seguendo il fiume, che nasce dal ghiacciaio. Quando arriviamo al campo base, dopo circa 40 minuti di salita in un deserto di rocce, il tempo inizia a incupirsi. Al campo base ci fanno indossare degli stivali impermeabili sopra gli scarponi, ci consigliano di mettere guanti e cappello (se non li abbiamo ce li prestano loro) e ci fanno salire su un monster truck, con il quale iniziamo ad avventurarci sul ghiaccio.
Il ghiacciaio si sta ritirando e ora dista circa 8 km dal campo base, che fino a qualche anno fa segnava l'inizio del Langjökull. Il riscaldamento globale c'è e qui si può toccare con mano; quelli dell'organizzazione non fanno che ripetercelo, purtroppo. Durante il percorso impariamo tante cose nuove sui ghiacciai: si muovono sotto il loro stesso peso e d'estate si ricoprono di uno strato di sabbia trasportato dal vento (che successivamente aiuta a datarne i vari strati).
Il paesaggio è spaziale: sembra di essere sul set di Interstellar nel momento in cui trovano Matt Damon. Tutto è bianco, sopra (il cielo) e sotto. In mezz'ora circa arriviamo al
tunnel: la galleria è stata scavata per motivi di studio in collaborazione con l'università di Reykjavìk e il governo islandese. Doveva essere un cerchio perfetto ma, poiché non si erano accorti
che il GPS sotto il ghiaccio non funziona, ha una forma a cuore. La visita dura un'ora, in cui giriamo con i ramponi dentro un freezer gigante illuminato a led, con l'acqua che ci piove da tutte
le parti. Il tunnel arriva a 30 metri di profondità, dove il ghiaccio risale agli anni '80: nonostante sia più compatto, il ghiaccio è molto più spesso perché pioveva e nevicava tanto di
più.
Oltre a morire di freddo, durante il giro vediamo crepacci e mulini d'acqua (buchi nel ghiaccio profondissimi formati dall'acqua che si scioglie); ci spiegano come il ghiacciaio si muova sotto il suo peso verso il basso e lateralmente. Finito il tour, ci fanno uscire dalla galleria. Lungo la via per il campo base il nostro accompagnatore ci racconta la storia di un ragazzo del posto che si era smarrito sul ghiacciaio.
In una limpida giornata di sole, il tizio era partito in motoslitta con un amico per arrivare sulla cima del ghiacciaio. Una volta lì il tempo era cambiato all'improvviso e entrambi erano saliti sulle motoslitte per tornare giù a tutta birra. L'amico era partito a razzo, mentre la motoslitta del tizio non ne aveva voluto sapere di mettersi in moto. In cinque minuti tutto era diventato bianco e il ragazzo, per non morire congelato, si era scavato una buca e ci si era infilato ad aspettare i soccorsi. Ci sono voluti cinque giorni, durante i quali il tizio è sopravvissuto bevendo neve sciolta e razionando una barretta di Prince Polo che si era portato dietro come snack. La vicenda è finita sui giornali e il produttore di Prince Polo ha sfruttato la quasi tragedia per pubblicizzare il Prince Polo come lo snack che "ti salva la vita".
Tra andata e ritorno la gita dentro il ghiacchiaio è durata più di quattro ore e siamo distrutti. Risaliamo in auto e andiamo al Fosshotel Reykholt, dove dormiremo stanotte. Per fortuna è vicino.
Decidiamo di cenare in albergo, gustando le delizie islandesi (pecora, merluzzo e patate); poi ce ne andiamo di corsa a nanna.
La nostra stanza è la 235, con una splendida vista sulla chiesetta del paese e sul cimitero antistante. Tanto per cambiare piove e fa freddo.
Ci mettiamo a dormire ma (giuro) mi sveglio verso l'una e mezza di notte. Tutti dormono, c’è luce come in pieno giorno e le tende sono tirate per fare buio. A un tratto sento mia figlia che nel sonno canta "Alleluja" e penso: è lei o uno spirito del cimitero l'ha posseduta? Mentre intona un altro "Alleluja" la sveglio e le chiedo se vuole venire a dormire con me. Mi risponde "si mamma" e si infila nel mio letto.
E' lei, penso con sollievo, e mi rimetto a dormire.