Alla Fondazione Memmo il terzo capitolo del progetto Conversation Piece. Fino al 2 aprile
Arnold Hauser afferma, nella sua celebre Storia sociale dell'arte per i tipi Einaudi, che Cubismo, Dadaismo, Futurismo, Surrealismo e altre correnti artistiche di inizio '900 rifiutarono il naturalismo con risolutezza. L'atteggiamento verso la realtà per queste non fu più di carezzevole consenso, come nel passato, ma diventò momento di discussione, integrazione e disgregazione, rielaborazione, protesta e -- in ultima analisi -- dissacrazione. Ne è un esempio l'emblematica "Fontana" che Marcel Duchamp non ebbe mai il coraggio (o la volontà) di esporre, ma che costituì ugualmente un passaggio fondamentale nella concezione dell'arte.
Ne derivò un'estetica completamente rovesciata e un'arte che presuppone l'approccio spontaneo, istintivo e diretto dell'artista e dello spettatore.
A distanza di un secolo dall'esperimento duchampiano, la Fondazione Memmo inaugura il terzo capitolo del fortunato progetto Conversation Piece (già incontrato agli esordi di questo blog): l'obiettivo del progetto è far conoscere al pubblico romano alcuni artisti contemporanei di fama mondiale e le loro opere, quasi sempre ideate appositamente per gli spazi espositivi della Fondazione Memmo in via Fontanella Borghese 56b.
Questa volta il tema della mostra, curata da Marcello Smarrelli, è incentrato sulla natura degli oggetti e sull'uso (e il misuso) che gli artisti ne fanno. Non a caso, il sottotitolo della mostra è il famoso promemoria di Jasper Johns "Take an object / Do something to it / Do something else to it" (ossia: artista, "prendi un oggetto, facci qualcosa, poi facci qualcos'altro"). Il motto non è che la piena consacrazione del principio di defamiliarizzazione dell'oggetto avviato a inizio Novecento: solo che ora siamo nel 1964, negli Stati Uniti, e Jasper Johns è uno dei principali esponenti della corrente americana New Dada (ma guarda un po', ancora Dadaismo) insieme a Robert Rauschenberg. Tutto torna.
Per Conversation Piece - Part III Marcello Smarrelli ha selezionato tre artisti d'oltreconfine (Jonathan Baldock, Magali Reus e Claudia Wieser) e l'italianissimo Piero Golia, che però vive e lavora a Los Angeles da anni.
I quattro artisti si sono cimentati sul tema della defamiliarizzazione degli oggetti, sviluppando il tema in chiave assolutamente contemporanea. Il risultato è una ricerca nuova, che prende spunto dai giganti del passato per poi differenziarsene del tutto.
Partiamo dalle opere di Magali Reus, giovane artista olandese che qui espone cinque sculture della sua serie Leaves. Si tratta di lucchetti giganti, snaturati, sezionati e spesso incompleti, che hanno interamente ceduto l'originaria funzione di protezione per assumere una nuova veste, quella di taccuino/promemoria su cui annotare le date, i nomi e i numeri del cuore. E' un linguaggio segreto e personale il loro, come segreta e personale è la combinazione di certi lucchetti. Ancora, rispetto all'oggetto tradizionale i Leaves si spogliano della loro corazza protettiva esterna per svelare molle e meccanismi, come se l'artista avesse voluto rivelare, mettendo a nudo la loro anima più interiore, la propria natura più recondita e fragile.
L'opera più originale, e forse quella che mi ha più impressionata, è The Painter (il pittore) di Piero Golia. L'artista ha pensato bene di prendere in prestito un gigantesco braccio meccanico, di quelli che si usano nel cinema per i movimenti sul Croma Key (lo sfondo monocromatico blu o verde usato per gli effetti speciali), come suo alter ego. Non appena si entra in sala il robot si attiva, come se si accorgesse della nostra presenza, e inizia un balletto con il minuscolo pennellino (che magnifico contrasto con la sua massa imponente!) e i vasetti di colore, facendo un rumore che ricorda Robocop e, per i più giovani, i Transformers. Vi assicuro che è pura poesia: The Painter incuriosisce, incanta, commuove e intimorisce -- quando si muove di scatto verso i visitatori. Ricorda il tenero robottino Wall-E, abbandonato tutto solo sulla Terra. Piero Golia ha impostato il robot in modo che compia gesti il più possibile naturali, umani: esso scruta, prende le misure, guarda negli occhi (negli occhi?) il pubblico, e poi lo ritrae in forme semplici e astratte sui grandi fogli attaccati alle pareti. Eccoci, siamo tutti qui noi visitatori, sotto forma di rombo, cerchio o croce; i nostri ritratti sono tutto quello che resterà dell'opera, una volta che "il pittore" sarà restituito all'industria del cinema.
Il percorso espositivo si snoda attraverso le opere dell'artista britannico Jonathan Baldock, che ha scelto come oggetto da defamiliarizzare niente meno che il corpo umano e le sue parti. I bulbi oculari diventano così vasi per arbusti (stick in the eye, ossia "un bastoncino nell'occhio") e tavolini con sabbia colorata e tanto di cristallino. Nei grandi tessili appesi alle pareti sono protagonisti i particolari del volto e delle viscere. Innumerevoli i richiami: omaggi all'antichità greco-romana e alle sue maschere teatrali, a Roma e alla Bocca della Verità, alla natura, cui immancabilmente apparteniamo. Baldock non si ferma alle sembianze esterne e coglie l'interiorità, anche anatomica, oggettivandola sui grandi pannelli su cui fluttuano arti, occhi, intestini. Perché noi esistiamo anche (e soprattutto) per la nostra interiorità fisica -- viscere, stomaco, cuore compresi -- e non solo per l'aspetto esteriore. Il percorso espositivo si configura dunque come un invito per il visitatore a infilare la mano nella "bocca della verità" per esplorare, acquisendone consapevolezza, la propria cruda visceralità. Operazione tutt'altro che facile, ma senza dubbio terribilmente affascinante -- e sottolineo il terribilmente.
Quella di Claudia Wieser, artista tedesca classe 1973, è un'operazione che non si limita al singolo oggetto, ma contamina e ingloba tutto l'ambiente circostante. L'intento (o se non altro il risultato) è quello di trasformare la percezione dello spazio, facendo di decorazioni e suppellettili opere d'arte e proiettando il visitatore in un ambiente carico di echi aulici e lontani, dagli splendori della civiltà greca a forme e colori che, per quanto si sia a digiuno di arte recente, appartengono ormai a un patrimonio visivo diffuso e comune. Claudia Wieser ha realizzato per questa occasione grandi carte da parati con il volto severo dell'auriga di Delfi e con paesaggi architettonici a metà tra gli sfondi metafisici di Giorgio De Chirico e le "Scale impossibili" di Maurits Escher. Dappertutto ha collocato specchi assemblati in forme geometriche
che frammentano l'immagine riflessa, distorcendola, e piastrelle e vasi di ceramica di chiara ispirazione avant-guarde. Un viaggio nel passato, una sorta di "Art experience" senza opere originali esposte -- fenomeno oggi tanto in voga -- realizzata però unicamente attraverso la trasformazione e la rivisitazione degli oggetti di uso quotidiano esposti.
L'operazione di Claudia Wieser è ricerca di consapevolezza del proprio passato, vicino e lontano, che deve diventare parte integrante del nostro presente. E' un inno all'importanza fondamentale che l'arte riveste nella vita quotidiana, unica disciplina che -- nelle sue svariate forme -- può liberare e nutrire l'anima. L'invito è a coltivarla, sempre e più che mai, per illuminare le tenebre di questi giorni bui, oscurati da crisi, corruzione, odio, terrore e terrorismo, falsi miti e falsi bisogni. Il tema di Conversation Piece - Part III si differenzia dagli esperimenti del passato per una maggiore morbidezza e pacatezza dei toni, per essere una denuncia controllata, un invito a guardare dentro se stessi per riflettere forse sulle cose veramente belle e significative della vita. Queste, ecco, andrebbero veramente custodite e trattenute con un lucchetto, per non perderle mai di vista.
Alessia Paionni
Fondazione Memmo
Via Fontanella Borghese 56b (via del Corso), Roma
Ingresso gratuito
Dal 17 dicembre 2016 al 2 aprile 2017
tutti i giorni (escluso martedì) dalle 11 alle 18
Per info: Benedetta Rivelli (+39 06 68136598)
Laboratori didattici per bambini (4-11)
15 gennaio, 5 febbraio, 19 marzo, 2 aprile
Solo su prenotazione scrivendo a: daphne.ilari@gmail.com